Estratto della mia tesi di specializzazione in teatroterapia

Durante la mia esperienza oramai ventennale come conduttore di gruppi, insegnante di tecniche di improvvisazione teatrale con una forte intenzione legata a tematiche come relazione e comunicazione (sia nella scuola pubblica che in contesti privati come Cooperative Sociali, Associazioni e Circoli) ho maturato una riflessione.
Come per la musicoterapia recettiva vi racconto l’ipotesi che in egual modo anche la la teatroterapia possa ottenere lo stesso risultato.

Premetto che oltre al teatro, il mio background artistico è ricco di esperienze musicali che mi ha visto all’opera con diversi strumenti: dalle percussioni a quelli armonici inizialmente in un approccio tecnico per poi proseguire da autodidatta.

Cos’è la musicoterapia recettiva?
Come probabilmente è già noto tutte le arti terapie (danza, musica, pittura, modellamento, teatro) mirano al benessere psicofisico da intendere soprattutto nella misura in cui, chi vi partecipa, lo fa attivamente (disegnando o dipingendo, danzando, recitando e suonando); va da se che esiste anche un lato definibile “passivo” quando ponendosi in un particolare ascolto il partecipante si avvale di ciò che gli arriva sottoforma di stimolo induttivo.
Con il termine “recettivo” si sottolinea il lato sensibile e in ascolto nel ricevere a sé gli elementi, i fattori o gli stimoli provenienti dall’esterno. 
La musicoterapia recettiva si basa sull’ascolto guidato e strutturato in considerazione del fatto che gli stimoli sonori (provenienti da brani riprodotti o da strumenti suonati) permettono il rilascio di neurotrasmettitori e neuromodulatori che regolano il comportamento e l’affettività dell’essere umano.

Sono fermamente convinto che quanto detto valga anche in teatroterapia per via delle stesse peculiarità riscontrabili nell’atto narrativo.

Noi siamo esseri comunicativi, o per dirla come il sociologo Paolo Jedlowski, siamo “una specie narrante”. Per narrare creiamo legami, relazioni e nell’ascolto delle narrazioni ritroviamo in noi qualcosa che già c’era e che aveva bisogno di risuonare per essere notato. Il racconto di sé o di una storia, attiva processi interiori che giustificano e creano connessioni le quali nei momenti di malessere sembrano essere svanite. Il ritrovo con l’altro nella narrazione attiva gli stessi meccanismi fisiologici come quelli citati per la musica. Durante la fase d’ascolto di una storia si attivano funzioni cognitive in cui il pensiero si attiva, impara e si adatta tra immagini e sequenze temporali; ma vengono attivate anche funzioni emotive nel riconoscimento degli stati d’animo, delle tensioni e dei piaceri riconducibili ai propri vissuti.

Non è da sottovalutare il valore aggiunto che attraverso lo strumento teatrale assume la comunicazione non verbale e quella para-verbale in cui, grazie all’attività neuronale, aggancia le due parti in un gioco recettive (per l’appunto).

Le immagini che riaffiorano in noi quando ascoltiamo una storia diventano evocative ma sono al tempo stesso un aggancio per l’avvio di risoluzioni, trasformazioni, stimoli educativi o veri e propri modelli riabilitativi.

Suono, voce e persona
L’uso della voce in teatro ha il suo alto valore poiché, al netto della dizione e delle tecniche sulla respirazione, lo strumento vocale è tipico nella recitazione; ovviamente non è il solo e non si recita solo con la voce, ma in questo articolo sorvolo scontatamente la disamina di un argomento di cui i lettori interessati sono già ampiamente conoscitori.*

La voce è un suono che viene prodotto da noi ed è un’espressione del linguaggio interno del nostro corpo; è una delle nostre espressioni biologiche. I suoni che emettiamo provengono dalla nostra storia, dalla tessitura degli eventi della nostra vita. La nostra voce è parte della nostra persona (dal latino per-sonar, la maschera di legno portata in scena attraverso cui risuonare la voce).

la nostra voce suona ciò che siamo

L’essere umano (tutti gli esseri viventi) comunica per necessità al pari degli altri bisogni vitali. Oltre al valore sociale e relazionale, si vive anche perché si comunica e quindi ascoltiamo accogliendo suoni che esistono a loro volta grazie ai nostri suoni prodotti.
Ed è estremamente difficile escludere un suono (scartando le ragioni fisiologiche come la mancanza di udito in cui regna, però, la sensibilità tattile a compensarne la mancanza). Ma tale “eliminazione” potrebbe accadere qualora fosse slegato dal significato (ad esempio potrei non sentire il sonaglio di un serpente velenoso poiché sono nato e vissuto in una grande città metropolitana e non ho mai costruito una rappresentazione sonora** di quel suono, ma non per questo il suono non entra nel mio apparato uditivo). E su questo ultimo punto focalizzo la riflessione tornando all’uso della voce.

Oltre alle vibrazioni il nostro suono vocale produce parole che sono sonorità cariche di significati (in psicofisiologia si chiama “evento”). Lungi da me utilizzare con sufficienza concetti di materia psicologica, è fondamentale comprendere che una parola pronunciata è capace di toccare, sfiorare o colpire l’altro che a sua volta ascolta in tutta la sua interiorità e una rappresentazione mentale non è paragonabile ad una mera immagine, ma essa ne conserva il valore affettivo risalente alla sua origine nella memoria.

Il linguaggio verbale è una delle griglie cognitive più importanti nell’essere umano ed è costituito da rappresentazioni acustiche che sono: rappresentazioni acustiche di eventi. E continuando è importante ribadire che nel linguaggio verbale, oltre al suono che ne rappresenta l’evento (significante e significato della tradizione linguistica) c’è anche una relazione tra eventi. Quindi l’atto di ascoltare prevede una certa esposizione a possibili cambiamenti.

Ebbene: se paragonassimo l’ascolto delle parole all’ascolto di brani musicali?
Se concepissimo la recettività del “suono parlato” al pari dello stimolo di un brano evocativo?

Questa domanda me la sono posta quando durante i percorsi e le conduzioni nel mio lavoro mi sono ritrovato a raccontare ai partecipanti tutto ciò che di loro avevo visto. Cioè restituivo verbalmente il mio vissuto rispetto al loro evento (ad esempio una loro performance o un loro operato) condito dalla giusta componente emotiva (la mia) enfatizzando aspetti che rendevano l’azione di uno la realtà di molti: ho addirittura accompagnato processi trasformativi attraverso restituzioni in versi (poesie).

Cosa ho osservato?
Che l’ascolto delle mie parole diventava – il più delle volte – un punto di svolta, un momento di affermazione nello sguardo dei ragazzi. Faccio l’esempio di quando in una scuola superiore dopo uno di queste “particolari restituzioni” quello strano “mutismo” tipico della popolazione adolescente nei confronti di un me-adulto, veniva a sciogliersi per fare spazio a parole, scritture, posture e respirazioni differenti nuove e benefiche.

Così, grazie all’ascolto, è possibile riflettere sul concetto di risonanza (tanto caro alle artiterapie) e che in fisica viene espresso nella “legge di risonanza”:

ogni corpo possiede proprietà vibrazionali tali per cui se nell’ambiente si attiva una specifica vibrazione, solo chi è in grado di captarla
inizierà a vibrare all’unisono con essa, tutti gli altri no.

che poco si allontana dal discorso sul significato se vi conteniamo o accostiamo gli elementi coinvolti nel contesto culturale.

Come la musicoterapia recettiva utilizza le vibrazioni captate dall’orecchio interno, penetrando a varie profondità e provocando trasformazioni nei processi elettro-biochimici all’interno della mente e dell’organismo dell’individuo, anche in teatroterapia l’utilizzo accorto della voce può agire sui medesimi processi sommati al lavoro sulle immagini interiori (rappresentazioni).

Faccio un collegamento con la fiaba.
Un esempio è dato dalla nota iniziale del “c’era una volta…” che sospende l’elemento più insidioso nell’animo umano, ovvero il tempo, lasciandolo indefinito e allo stesso tempo rassicurante. Nulla succede adesso, nulla mai succederà. Chiunque può stare sereno e nessuno si sentirà direttamente coinvolto se non lo desidera.
La narrazione prosegue con momenti inattesi, di discontinuità, di suspense grazie alle metafore che catturano l’attenzione dell’ascoltatore per permettergli di identificarsi con il protagonista. Nella rappresentazione che le fiabe hanno rispetto ai nostri conflitti e il percorso di trasformazione per risolverli, la componente risonante nell’ascolto di una voce dedicata, quindi di vibrazioni costantemente volte a chi ascolta, si aggiunge avvolgendo l’atto teatrale.

Sottolineo che all’interno di un percorso di gruppo di teatroterapia si vive una conduzione che parte da un punto in cui di gioca con il corpo e con la voce (momento pre-espressivo) e che si può passare all’interpretazione di personaggi principalmente improvvisati (tecniche espressive) fino a giungere alla fase post-espressiva che riguarda l’analisi dei vissuti emersi. L’esperienza recettiva è già insita nell’atto stesso di vivere il momento presente in modo aperto e flessibile.

Ancora sento il bisogno di evidenziare (per chi non ha mai partecipato ad un’esperienza in teatroterapia) che questi stimoli insieme con tutto lavoro rientrano in un intervento in cui siamo noi conduttori a prenderci cura di tutti quegli aspetti congrui alla nostra professione ed esclusivamente all’interno del setting.

Avviandomi alla conclusione, spero di aver avviato una riflessione sia nei professionisti (colleghi e non), sia in chi potrà porre semplicemente una attenzione maggiore a ciò che dice e come lo dice.

*Se così non fosse rimando a questo episodio oppure a quest’altro episodio giusto per avere un’idea.
** immagine mentale con attribuzione acutica.

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